8. SPIRITO DEL GIOCO E SPORTIVITÀ

Perché questa immagine all’apparenza contraddittoria?
Cosa c’entrano le armate del RisiKo! con il simbolo sportivo delle olimpiadi?

Ebbene, innanzitutto occorre ricordare che RisiKo! non è un gioco di simulazione di guerra bensì è un gioco di ambientazione (cfr. il capitolo INTRODUZIONE AL GIOCO).

Infatti, come precisato al Capitolo 1: lo scenario bellico è solo lo spunto per la fantasia; l’ambientazione serve solo per dare un sapore alle mosse e per conferire al gioco un minimo di realismo. L’equivalenza assoluta dei territori e delle armate che tecnicamente dovremmo chiamare caselle e pedine, lo dimostra: infatti, la plancia è una scacchiera con caselle dalle forme particolari e dai nomi originali.

Inoltre, per via degli innegabili e profondi aspetti psicologici e relazionali insiti nel RisiKo! (come abbiamo potuto analizzare nel capitolo precedente), questi ci portano inevitabilmente, come conseguenza, a dover analizzare il gioco anche da un punto di vista che contempla il concetto di sportività (anche se non si tratta di uno sport ufficiale) e di competitività (o agonismo): componenti che ben si legano agli aspetti psicologici e relazionali e, dunque, per forza di cose si legano al gioco del RisiKo!.

Si vedrà, pertanto, come la sportività (o fair play) e la competitività svolgono un ruolo importante durante una partita di RisiKo!: per questo motivo, verranno richiamati i concetti etici legati allo sport in generale, che sono quindi, simbolicamente, rappresentati e sintetizzati dai cinque cerchi olimpici.

8.1 Introduzione

Spirito del gioco e sportività (o anche fair play) sono concetti delicati da affrontare nel RisiKo! che, essendo un gioco multiplayer, coinvolge aspetti etici e psicologici che contraddistinguono ogni giocatore e che in un certo qual modo si sono consolidati nei decenni attraverso dinamiche ben precise e delineate all'interno della community.

Un Onion Diagram (diagramma a cipolla) è un grafico che mostra le dipendenze e le relazioni tra le diverse parti di un processo o di un'organizzazione. Ad esempio, si può utilizzare un diagramma a cipolla ovunque sia presente una gerarchia.

La struttura di un diagramma a cipolla imita quella di una cipolla reale. Il grafico contiene un cerchio interno, che rappresenta il concetto principale del diagramma. Più cerchi esterni circondano il cerchio interno. Gli elementi negli anelli esterni più grandi dipendono ciascuno dagli elementi negli anelli interni più piccoli.

Da tale definizione appare evidente la struttura gerarchica in ambito sportivo e ludico, e nello specifico nel RisiKo!, dei temi che verranno affrontati nel presente capitolo:

  1. SPIRITO DEL GIOCO
  2. FAIR PLAY
  3. REGOLAMENTO
  4. COMPETITIVITÀ

N.B.: nel presente capitolo si illustrerà dapprima cosa sia il fair play e si tenderà ad usare tale sostantivo, che rappresenta appunto la moderna concezione di sportività. A fine capitolo, invece, verrà illustrato in appendice il vecchio significato di sportività. Ad ogni modo, si farà riferimento indistintamente a sportività e fair play (che sono dunque considerati come un unico concetto) in maniera del tutto analoga. Verranno altresì utilizzati concetti come correttezza e lealtà che rientrano nella sfera del fair play. Infine, il concetto di sportività non deve essere confuso con quello di competitività (o agonismo) che, come vedremo, è invece un concetto differente e ben distinto dalla sportività.


Dichiarazione di Spartaco Albertarelli (spartac), ex Arbitro Ufficiale di EG: [27]
Ovviamente, la mia posizione di arbitro ufficiale non mi consente di esprimermi in modo del tutto libero, però credo che vi siano dei principi come sportività e spirito del gioco che hanno un valore preciso e credo che quel valore sia facilmente percepibile da chiunque.

In molti casi essere sportivi significa rinunciare a un diritto in nome di un ideale, ma il nostro mondo ha da tempo messo gli ideali in soffitta, premiando altri valori. Questo succede sui campi di calcio, sulle strade, nelle aule del Parlamento e anche nelle classifiche di RisiKo!.

Di tanto in tanto, qualcuno si ricorda di questi ideali e agisce di conseguenza, ma nella maggior parte dei casi prevale l’interesse personale. Può essere sbagliato, ma è il mondo che abbiamo costruito e che riteniamo essere migliore. Dobbiamo saper accettare i vantaggi e gli svantaggi di questo sistema.

Prima di addentrarci in questo capitolo, si vuole ricordare che RisiKo! è un gioco impegnativo, quasi stressante, perché impone molti ragionamenti e tiene in continua apprensione emotiva, perché si può sempre venire attaccati dagli avversari o da un’ondata di sfortuna. È vero, ma lo si può giocare anche in modo istintivo, cercando di divertirsi e di imparare nuove strategie e tattiche; variare approccio e visione è fondamentale per migliorare le proprie scelte strategiche e per allenare la propria flessibilità mentale. Occorre sempre essere disposti a rischiare un errore per un’azione di gioco che si ritiene giusta, piuttosto che non fare nulla perché si è incerti sugli esiti o bloccati dalla paura di essere giudicati da qualche giocatore esperto. Dunque bisogna buttare via l’ansia da prestazione e ogni timore reverenziale.

Il mondo è tutto lì, a propria disposizione. Saper giocare fino all’ultimo lancio di dadi. Esprimere sé stessi anche con gli errori e accettare che ne verranno fatti sempre, come nella vita.

L’opportunità di fare qualcosa di giusto, così come quella di fare qualcosa di sbagliato, passa attraverso l’azione. Bisogna osare. Saranno l’esperienza, la riflessione e l’intuito a permettere di fare le giuste scelte di gioco evitando quelle sbagliate e, comunque vada, alla fine si potrà sempre dire che si tratta di un gioco, solo un gioco e nulla più. [28]

8.2 Stare insieme

Un giocatore che rispetta il RTU può benissimo tenere un comportamento incoerente, antisportivo o ineducato (la maleducazione, com'è noto, viene sanzionata).

Un giocatore non evoluto ed emancipato avrà quasi sempre qualcosa da rimproverare ai suoi avversari e, se non ha vinto, avrà qualcosa da ridire anche sulle loro scelte tattiche e strategiche. Ci sono giocatori che anche dopo anni di esperienza non vivono bene il gioco.

Ciò nonostante ogni condotta di gioco è resa possibile dalle regole per tutelare il senso ultimo dello stare insieme: condividere ed esprimere sé stessi rispettando l’altro. [29]

RisiKo! è un gioco multiplayer. In quanto tale, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la componente psicologica può rendere ininfluente qualunque abilità tecnica e comportare anche la sistematica sconfitta del giocatore più bravo.

Se un giocatore cerca di tendere ad una perfezione agonistica (che racchiude aspetti sia psicologici che strategici) giocherà con un approccio libero da pregiudizi e, pertanto, valuterà i suoi avversari solo sulla base delle loro caratteristiche psicologiche e strategiche strettamente legate al gioco al fine di prevalere su di loro durante la partita.

Al contrario, quando un giocatore compie azioni antisportive, dettate da scelte strategiche e tattiche irrazionali (da un punto di vista dell'equilibrio generale dello scenario di gioco), a loro volta generate da una componente psicologica non stabile, non centrata e non chiara sui propri obiettivi di gioco, allora la partita viene palesemente falsata: si può assistere ad una brutta partita, in cui i giocatori compiono mosse non utilitaristiche ai fini del proprio vantaggio personale oppure che avvantaggiano un giocatore a discapito di un altro (si comportano da kingmaker).

Quello che si riconosce al giocatore che ha fatto proprio uno spirito di gioco gradevole per gli avversari è la presa di responsabilità del tempo altrui.
Quando ci si siede ad un tavolo, live oppure online, si accetta contestualmente di passare un intervallo di tempo giocando con delle altre persone.
Il fine espresso del gioco è la vittoria, tuttavia solo un giocatore la conseguirà quindi, indipendentemente dal risultato, il fine comune a tutti i giocatori di un tavolo rimane passare del tempo gradevole e divertente.

Indipendentemente dal risultato, non dare peso al piacere degli avversari di gioco significa non essere adatti per un gioco multiplayer condizionato anche dall’alea. Si deve riconoscere il diritto alla vittoria dei propri avversari e l’eventuale avversità del caso. Un buon giocatore sa anche perdere e prendere la sconfitta come un’occasione di crescita e di maggiore esperienza. Le mosse altrui, anche quando svantaggiose per i propri scopi, sono tuttavia lecite e legittime e nella peggiore delle ipotesi, sono solo delle variabili per le quali serve abilità di gestione e previsione, al fine di cautelarsi.

8.3 Competere per crescere

La competizione attiva abilità fisiche, mentali ed emotive, stimola lo sviluppo ed il cambiamento. Competere significa sperimentare il successo o l’insuccesso, ma anche cercare di migliorarsi senza affidare tutta la gratificazione o frustrazione al risultato. [30]

Questo approccio, orientato alla qualità della prestazione dà vita a due atteggiamenti:

  1. distacco dal risultato e quindi poca determinazione e concentrazione (basso livello di attivazione) che influisce negativamente sulla prestazione
  2. approccio sereno e propositivo (adeguato livello di attivazione) con rapido miglioramento delle abilità di gioco e di gestione emotiva della partita

In questo secondo caso il sentimento di gratificazione deriva dalla consapevolezza di:

  • aver fatto del proprio meglio
  • aver individuato gli ambiti di miglioramento delle proprie tattiche e strategie
  • aver prodotto o dedotto nuove soluzioni
  • aver gestito emotivamente alcune delicate fasi di gioco
  • aver mantenuto un atteggiamento mentale positivo nonostante gli elementi aleatori

8.4 Obiettivo di un buon giocatore

In ogni attività ludica o sportiva, il fine sembra essere sempre lo stesso: vincere. Ma porsi come unico fine la vittoria diventa alquanto limitante. Un giocatore che orienti tutta la sua attività ludica al risultato, quando avrà finito di giocare sarà poco interessato alla riflessione. Se ha vinto, molto probabilmente è perché ha giocato bene, se ha perso è perché non ha avuto fortuna: in entrambi i casi il risultato non gli è servito.

Una cosa è l’obiettivo di gioco (quello che viene assegnato ad inizio partita) un’altra cosa è l’obiettivo del giocatore (quello che ci si dà prima di ogni partita).

Per mantenere la lucidità senza farsi condizionare da una partita ormai compromessa occorre aver ben fissato nella mente l’unico vero obiettivo di ogni partita: esprimere sempre il proprio massimo potenziale. [31]

8.5 Massimo potenziale

È un concetto arbitrario, non misurabile e assolutamente soggettivo. Puntare ad esprimere il proprio massimo potenziale offre molti stimoli perché:

  • impone di valutare la propria prestazione e non solo il risultato finale
  • ci si può sentire soddisfatti della prestazione e delle dinamiche anche se non si ha vinto
  • impone di cercare il migliore risultato possibile fino alla fine della partita

Chi determina qual è il proprio massimo potenziale? Solo ogni singolo giocatore può farlo, però essere in grado di valutare le proprie abilità strategiche, psicologiche e relazionali in modo esatto è impossibile perché non è una misurazione matematica, ma una valutazione personale.

Riflettendo e confrontandosi con gli avversari si può sperare di trovare il modo di dare un giudizio realistico alle proprie scelte strategiche. Nel dubbio, meglio essere critici e cercare di individuare cosa poteva essere fatto meglio; pensare di poter esprimere sempre il proprio potenziale al 100% è del tutto illusorio: il massimo potenziale è una prestazione alla quale tendere.

A fine partita, con il dovuto buon senso, si può giudicare la propria prestazione e valutare fino a che punto si sono espresse le proprie risorse potenziali in termini di logica, strategia, psicologia, concentrazione e rapporti relazionali. [32]

8.6 Quando perdere è tutto

La sconfitta nel gioco e nella vita, è la prima sorgente di crescita a condizione di volerla osservare e studiare; la comprensione di una sconfitta è molto più che capire: comprendere significa avere piena coscienza delle scelte, dell’atteggiamento di gioco e avere l’onestà e la capacità intellettuale per riconoscerne i molteplici effetti. [33]

In genere si individuano gli errori di gioco, ma non si è abbastanza obiettivi per considerarli determinanti. Possiamo distinguerli in due tipologie:

  1. Errori attivi: avvengono quando si compiono scelte che si sono rivelate sbagliate. In tal caso, l’analisi risulta abbastanza semplice poiché l’errore è un fatto concreto avvenuto sulla plancia di gioco
  2. Errori passivi: sono le azioni non fatte. In tal caso, l’indagine diventa più difficile, infatti, questa sensibilità si affina con l’esperienza e il confronto con gli altri giocatori, dato che alcuni avversari hanno una visione diversa, a volte più ampia, delle scelte da fare

8.7 Spirito del gioco

Nella sezione riservata ai giocatori accreditati di RD3 è riportata la seguente regola in PREMESSA

1.5 Il giocatore che ottiene l’accredito si riconosce nei più alti ideali di lealtà, sportività e rispetto degli avversari, accettando come insindacabile e inappellabile il giudizio dell'organo giudicante designato dall’editore (Arbitro Designato o Commissione Arbitrale) il cui compito è quello di far rispettare non solo le regole scritte, ma anche lo spirito del gioco.

Dunque, almeno nel regolamento per i giocatori online, sono richiamati questi alti ideali.


DUALISMO TRA SPIRITO DEL GIOCO E REGOLE ALLA LETTERA

Fonte: www.gdrmag.it

La nascita di questo dualismo si può attestare pressappoco alla fine degli anni ’70, quando Gary Gygax (autore di giochi, conosciuto soprattutto per avere creato il gioco di ruolo fantasy Dungeons & Dragons) scrive di suo pugno la celebre frase nel 1st edition Dungeon Master's Guide:

it is the spirit of the game, not the letter of the rules, which is important
ovvero: lo spirito in cui il gioco è scritto ha la precedenza sulle singole regole

Dunque, qual è la definizione di spirito del gioco?

Inferendola dalla famosa frase di Gary Gygax tale definizione è contrapposta alla lettera delle regole, ossia alla forma in cui sono scritti i regolamenti di gioco.

Quindi, non bisogna soffermarsi sulle singole regole o sulla loro formulazione, ma sul gioco per intero, perché l’intero è superiore alla somma delle parti.

In definitiva: lo spirito di un gioco è ciò che definisce (o caratterizza) quel gioco rispetto agli altri.

Lo spirito del gioco è la natura e la sostanza di un gioco, tale che se stravolta o modificata, fa si che quel gioco smetta di essere quel particolare gioco e divenga qualcos’altro. E questa sostanza non può essere scritta nero su bianco come se fosse una regola qualsiasi: essa va dedotta razionalmente dall’analisi del gioco nella sua interezza, perché essa equivale alle premesse su cui si fonda tutto il gioco, e va aldilà della semplice summa delle regole.

Come corollario a questa affermazione, ci si potrebbe chiedere: chi stabilisce qual è lo spirito di un gioco? Non è possibile rispondere in maniera soggettiva, ossia che ciascuno decide per se. Lo spirito del gioco non può essere un’opinione, ma un fatto obiettivo.

L'autore, già definisce (involontariamente) lo spirito di un gioco tramite la stesura del regolamento. Leggendolo e astraendo dalle semplici regole, si potrà comprendere già quali dovrebbero essere i pilastri su cui si regge tutto il gioco e quali obiettivi l'autore voleva ottenere.

Non bisogna farsi ingannare dalle regole così come sono scritte: la singola regola infatti andrebbe valutata sempre considerando il gioco nella sua interezza e non isolandola dal resto (che è quello che fanno i sostenitori dei regolamenti iper-testati e iper-perfetti che non devono fallire mai): questo può aiutarci non solo a discernere lo spirito del gioco ed evitare di snaturarlo, ma anche a capire il perché dell’implementazione di una data regola.

Risulta chiaro il rischio che si corre nel lasciarsi abbindolare dalle regole così come le troviamo scritte nei regolamenti. Bisogna, invece, sforzarsi di considerare tutto il gioco nella sua interezza, compreso il background dell’autore e i suoi obiettivi impliciti ed espliciti.


SPIRITO DEL GIOCO NEL RISIKO!

Definizione di Spartaco Albertarelli (spartac) dal sito ufficiale www.risiko.it

Non esistono giocatori bravi e giocatori incapaci, ma esistono quelli che si sanno divertire e quelli che per divertirsi devono competere a tutti i costi. I primi continuano a giocare, magari non hanno mai vinto una Challenge e non ci sono neppure andati vicino, ma si ritrovano ai raduni, fanno amicizie e partecipano all’attività della community come fosse una sorta di social network. Gli altri, quando si rendono conto che la loro bravura non trova un riscontro oggettivo e non vengono posti dei paletti, a volte se ne vanno polemicamente, venendo rimpiazzati inevitabilmente da qualche nuovo arrivato.

E il ciclo riprende, immutabile e immutato, con l'unico dettaglio di una crescita costante, che ha portato nel tempo ad avere una community sempre più ampia.

Vanno bene i tornei, le classifiche e le regole, ma solo fino a quando non si perde di vista che cos'è RisiKo!: un meraviglioso gioco e non uno sport.


Definizione tratta dai regolamenti dei tornei organizzati dal RisiKo! Club Milano (1998)

Per spirito del gioco si intende la correttezza, la lealtà, l’investimento nel gioco di un’energia ludica e sportiva e non bellicosa e violenta. Allo stesso tempo per spirito del gioco si intende la capacità di giocare e concorrere alla vittoria individuale fuori da qualsiasi alleanza preordinata che nel RisiKo! risulta sleale e scorretta. Il fine del gioco è vincere: qualsiasi alleanza, anche non preordinata (che non sia obbligata) di un giocatore con chi sta vincendo in modo manifesto la partita può quindi essere ragionevolmente intesa come un tradimento dello spirito del gioco. L’arbitro potrà richiamarsi in qualsiasi momento durante la partita a detto spirito del gioco, invitando i giocatori a combattere contro chi sta manifestamente vincendo la partita, senza però indicare quale sia il giocatore che a proprio giudizio la sta vincendo.


Definizione in relazione all'obiettivo

Lo spirito del gioco era la conquista del mondo (La Conquête du Monde) diventato poi nel RisiKo! classico la conquista dell’obiettivo (anni '70 / '80). Dunque, poiché il regolamento prevedeva la conquista dell’obiettivo, in quel caso (e solo in quel caso) conquistare, ad esempio, tre territori non serviva a nulla se poi vinceva un altro giocatore. [34]

Ma il RisiKo! è cambiato nuovamente: ora lo spirito del gioco è il RTU. Nei Tornei Ufficiali online che vengono disputati nell'ambito del RisiKo! moderno italiano, raggiungere l’obiettivo è solo una opzione per vincere (e non è la più frequente). Non solo. Oggi non viene premiata solamente la vittoria, ma vengono premiati anche i punti effettivamente conseguiti divisi per 10 ed arrotondati per difetto.

In questa situazione, tutti possono guadagnare punti conquistando tre territori (o anche uno solo, se sono vicini alla decina superiore), quindi non hanno solo diritto a farlo, ma gli conviene farlo. E chi cerca di impedirglielo con una distorsione del concetto di competitività che viene vergognosamente piegato agli interessi di alcuni giocatori, commette un’azione non competitiva.

In base al RTU, l’attuale obiettivo del gioco è:

  1. vincere (facendo RisiKo! oppure facendo più punti degli avversari)
  2. fare il maggior numero di punti possibile (non potendo vincere)

Altro errore è considerare che la conquista di un punto torneo sia insignificante, ma nel contesto di un torneo a punti valgono, e valgono tutti. Un punto vale uno, non vale zero. È la più piccola parte del punteggio, ma non è zero. E se un punto vale, allora è competitivo cercare di prenderselo e non competitivo cercare di convincere gli altri giocatori che non dovrebbero farlo: cioè dovrebbero andare assurdamente contro i loro interessi per far vincere un altro giocatore.

In conclusione giocare da kingmaker (come vedremo), ossia aiutare qualcuno (volontariamente o meno) e far perdere quello che doveva essere il legittimo vincitore perché è stata fatta una determinata mossa (o non è stata fatta) a suo discapito (per motivi psicologici più o meno nobili) è contrario allo spirito del gioco.

8.8 Fair play

Perché se un giocatore butta la palla fuori dal campo di gioco, di solito la maggioranza delle migliaia di spettatori seduti sugli spalti applaude? [35]

Il termine fair play è derivato direttamente dal gioco del calcio, o per meglio dire da quello del cricket (le due cose sono strettamente unite, perché le società calcistiche inglesi sono una diretta emanazione di quelle del cricket).

Esso venne introdotto per la prima volta verso la seconda metà del 1700, quando il gioco del cricket fu codificato. La Regola 42 è quella che definisce cosa sia il fair play e forse stupirà sapere che nel momento in cui Spartaco Arbertarelli (spartac) ha scritto il Regolamento dei Tornei Ufficiali online, si è ispirato direttamente a quella regola che, sebbene sia vecchia di più di due secoli, è ancora attualissima.

La Regola 42 si basa sul seguente principio riportato integralmente:
The responsibility lies with the captains for ensuring that play is conducted within the spirit and traditions of the game, as described in The Preamble - The Spirit of Cricket, as well as within the Laws.

Ovvero:

La responsabilità spetta ai capitani di garantire che il gioco sia condotto nello spirito e nelle tradizioni del gioco, come descritto nel Preambolo - Lo Spirito del Cricket (*), nonché nelle Regole.

(*) Il Preambolo viene così enunciato: Il cricket deve molto della sua unicità al fatto che dovrebbe essere giocato non soltanto secondo le proprie regole ma anche secondo lo Spirito del Gioco. Qualsiasi azione che sia vista come contraria a questo Spirito causa un danno al gioco stesso. La responsabilità principale di assicurarsi che il gioco sia condotto secondo lo spirito del fair play e dei capitani.

Non è difficile comprendere che si fa riferimento prima allo spirito del gioco e poi alle regole e non è difficile notare un parallelismo diretto con le regole del Torneo Ufficiale online (nello specifico, la attuale regola 1.5).

La Regola 42, definisce anche cosa si debba fare nei casi limite, quelli cioè che non possono essere codificati. In questi casi sono gli Arbitri che devono stabilire quale sia la condotta di gara corretta (esattamente quello che prevede il Regolamento, sempre al punto 1.5).


APPROFONDIMENTI


Possiamo inoltre ricollegarci alle seguenti tematiche che rappresentano la sintesi del substrato culturale sviluppatosi nell'arco di decenni di attività nell'ambito della comunità ludica del RisiKo!, sia live che online:

FAIR PLAY APPLICATO AL CASO DI DISCONNESSIONE DI UN GIOCATORE

La disconnessione di un giocatore non è facilmente valutabile dall'Arbitro Ufficiale, in quanto è difficile stabilire se ci sia mala fede o meno del giocatore in questione: infatti, questi potrebbe essersi disconnesso ad inizio partita poiché ha reputato di partire troppo svantaggiato nella distribuzione iniziale dei territori in relazione all'obiettivo ricevuto (dunque con pochi punti) oppure ha deciso di disconnettersi durante la partita poiché la sua situazione in plancia era drammatica (pochi territori, dunque impossibilità di rientrare in partita). Ma, al contrario, il giocatore potrebbe essersi disconnesso puramente per questioni legate alla tecnologia e, dunque, non imputabili alla sua volontà.

In ogni caso, la piattaforma online prevede attualmente che, in caso di frequenti disconnessioni, il giocatore in questione cambia il colore del suo carro (che diventa nero, indicatore di poca affidabilità) e non può più accedere ai Tornei Ufficiali. Per poter rientrare a giocare regolarmente, tale giocatore dovrà quindi giocare una serie di partite senza avere più disconnessioni, al fine di riottenere l'affidabilità (carro arancione). Tutto ciò è gestito da un algoritmo dedicato e segreto dell'Editore.

In generale, nell'ambito dei tornei del RCO Metarisiko, è consuetudine rallentare il gioco quando avviene che uno o più giocatori si disconnettano.

Lo spirito del gioco, per quanto riguarda il Torneo Ufficiale online, prevede che le partite siano giocate da 4 giocatori e non da 3, al punto che non è data la possibilità di iniziare una partita con un numero diverso di giocatori.

Tuttavia, dato che siamo in un ambito virtuale influenzato anche da questioni tecniche, esiste la possibilità che ci si trovi di fronte a situazioni particolari che possono portare ad avere meno di 4 giocatori in plancia.

Il regolamento lascia ai giocatori la possibilità di decidere se proseguire la partita o meno e la discriminante per questa scelta è quella che riguarda la volontarietà o involontarietà della disconnessione di un giocatore.

Quindi, in caso di disconnessione, non si può decidere di continuare una partita nell’interesse superiore della sportività che rappresenta un’affermazione aberrante e che non ha alcuna giustificazione regolamentare, perché il regolamento non concede questa facoltà.

Che cosa sia sportivo, nei casi dubbi lo stabilisce l’Arbitro Ufficiale, non il giocatore: in tal caso se si decide di proseguire una partita senza minimamente porsi neppure la domanda riguardante la volontarietà o meno della disconnessione dell’avversario, giocando di fatto una partita valida per il Torneo Ufficiale online con 3 giocatori, si sta violando lo spirito del gioco.

Il regolamento dà ai giocatori la possibilità di operare una scelta: essi sono liberi di proseguire la partita e questa è una decisione presa nel rispetto delle regole. Essendo una decisione che rispetta le regole, tutti hanno il dovere di accettarla, ma nessun giocatore ha il diritto di volerla spacciare per una decisione che risponde ad un criterio di sportività che non esiste e non può esistere. [36]


VIDEO DI FAIR PLAY

IL RIGORE NON C'È, IL GIOCATORE LO SBAGLIA PER FAIR PLAY

Protagonista del gesto di fair play, il calciatore del Termoli Calcio, Vittorio Esposito, che nella gara di ritorno dei quarti di finale della Coppa Italia contro la Torres di Sassari, ha scelto di sbagliare il calcio perché il rigore decretato dall'arbitro non c'era. Della stessa opinione anche la squadra ospite e il suo portiere che, in segno di protesta, ha incrociato le braccia restando immobile tra i pali.

8.9 Regolamento

La definizione migliore di fair play è: dare a tutti i giocatori pari opportunità.

La competitività dipende dal regolamento del gioco in esame. Nel caso del RisiKo! dipende dal RTU. Un gesto competitivo può essere considerato come la volontà di prevalere in virtù dell'abilità pura e semplice, rifiutando qualsiasi vantaggio si ritenga immeritato o che non derivi direttamente dalla propria maggior bravura.

Le regole definiscono il terreno di scontro. [37]

Il fair play è la capacità di almeno una delle parti in gioco di cogliere i limiti delle regole e di saper applicare il proprio buonsenso in tutte le situazioni borderline ed eventualmente decidere di rinunciare ad un vantaggio e/o alla propria coerenza in favore dell’avversario e della propria autostima.

Il fair play non coincide né col regolamento né con le proprie convinzioni.

Il fair play è per sua natura un’eccezione.

Identificare la correttezza con la sportività è errato, poiché è evidente che se tutti seguono il regolamento (dunque sono corretti) ciò non vuol dire che siano tutti leali: esiste infatti anche una competitività malsana che evidentemente non rispetta l’ambito del fair play.

La coerenza non aiuta. La coerenza attiva (per cui hai la facoltà di cambiare un esito) non si distingue affatto dalla coerenza passiva (per cui non hai la possibilità di intervenire). Sono formalmente identiche in quanto entrambe delegano ogni responsabilità al regolamento.

Pensare che ci sia coerenza nell’associazione tra correttezza e sportività porta alla conclusione che il regolamento è equo ed imparziale e seguendolo senza arbitrii se ne trarrà tanti vantaggi quanti svantaggi.

Dunque è più corretto sostenere che la competitività (nell’ambito della sovrastruttura del fair play) è un’atto arbitrario e soggettivo: ossia, è possibile derogare quando le regole sembrano inadatte a gestire una situazione estrema e si ha la facoltà di intervenire (ad esempio, annullare una partita online a causa di una disconnessione di un giocatore).

Affermare che le eccezioni siano gesti umani, ma non sportivi (cioè non afferenti alla sfera del fair play), dettate da logiche legate ad un’etica non prevista nel RTU e che quindi rientrano in una sfera di giudizio di parzialità della visione di gioco è aberrante poiché, come abbiamo visto, spirito del gioco e fair play determinano l'ambito del regolamento, il quale determina poi l'ambito della competitività.

Rispettare il regolamento ed essere sportivi (praticare il fair play) sono due concetti del tutto diversi.

Seguendo quindi alla lettera il regolamento, si può incappare in atteggiamenti che la maggioranza dei giocatori esperti reputa antisportivi.

Rispettare il regolamento significa rispondere fedelmente alle norme di gioco condivise. Ma praticare il fair play significa rispettare i propri avversari, l’attività che si sta facendo e cercare di vincere lealmente. Spesso ciò che conta è come si viene percepiti al tavolo: è più probabile vincere se si fa qualcosa che sembra corretto, poiché se l’avversario considera ingiuste le scelte di un giocatore, diventerà ostile verso di lui.

Si può fare ogni cosa lecita per vincere: è un atteggiamento molto leale perché significa realizzare la migliore prestazione possibile nel rispetto delle regole. Le regole vanno rispettate con una giusta dose di flessibilità e buon senso che prende in considerazione i rapporti umani e il contesto ludico.

Il limite di ciò che è lecito è il regolamento, ma il limite di ciò che è leale è personale.

[Fonte: rielaborazione di concetti espressi in discussioni presenti sul forum EG]

8.10 Competitività

RisiKo! è una competizione individuale multiplayer: ciò vuol dire che ogni giocatore gareggia da solo ed esclusivamente per sé.

La competitività, come abbiamo visto, è un sottoinsieme della sportività e del regolamento a cui fanno entrambe riferimento.

Competitività e sportività sono due concetti molto diversi, che non vanno confusi. Infatti si può essere competitivi, ma antisportivi nelle scelte di gioco che un giocatore compie, seppure queste scelte siano lecite (cioè consentite e previste dal regolamento), perché magari quel giocatore sta approfittando di un vantaggio immeritato (ad esempio, la disconnessione involontaria di un avversario).

Quindi, si può affermare che un giocatore per sportività può anche rinunciare ad un suo lecito diritto in luogo di altri valori di natura etica (ovvero tutto ciò che rientra nella sfera del fair play).

[Fonte: rielaborazione di concetti espressi in discussioni presenti sul forum EG]


All'interno dell'ambito competitivo è possibile che un giocatore (inesperto) commetta qualche errore nelle scelte di gioco. Non bisogna però confondere l’errore con la mancanza di competitività.

Se una persona, in buona fede, ritiene di agire per il suo bene, lo deve fare e lo fa in modo competitivo, cioè al meglio delle sue capacità, non delle capacità di un altro giocatore: non può e non deve giocare con la testa di un altro giocatore. È possibile che tale azione sia un errore e allora gli converrebbe imparare a giocare meglio, ma non fa nulla di non competitivo, anzi si comporta in modo competitivo onorando l’impegno di giocare al meglio (per le sue possibilità e capacità).

Se un’azione fa arrabbiare non significa che sia antisportiva. Tutti ci arrabbiamo se perdiamo una partita, ma non è antisportivo se la vince un altro onestamente. Anzi, la sportività sta proprio nel riconoscere la vittoria dell’altro e accettare la sconfitta.

[Fonte: rielaborazione di concetti espressi in discussioni presenti sul forum EG]


AGONISMO

Prima di definire la competitività, andiamo a definire un altro termine importante che è l’agonismo.

Il sostantivo agonismo deriva da Agōnè, dal greco agōnismós (ἀγωνισμός), ovvero lotta, che a sua volta deriva da agein, ossia condurre e sta a significare:

  • particolare impegno di un atleta o di una squadra durante lo svolgimento di una gara
  • spirito combattivo
  • spirito di emulazione (impegno, per lo più lodevole, nell'imitare, eguagliare o superare altri)

All’epoca dell’antica Grecia, gli Agoni erano manifestazioni pubbliche in corrispondenza di celebrazioni religiose che venivano organizzate con gare e giochi per la conquista di premi. Oggi, per attività agonistica si intende quella attività praticata continuativamente, sistematicamente ed esclusivamente in forme organizzate.

Nei duelli, il concetto di agonismo veniva pervaso non solo di competizione e successo, ma anche di un sottile equilibrio tra bellezza esteriore e nobiltà d’animo. Da queste manifestazioni nascono le più celebri competizioni sportive odierne: i Giochi Olimpici.

Con il passare del tempo il concetto di agonismo ha perso parte del suo valore etico ed umano. Sempre più vediamo emergere la ricerca della vittoria con ogni mezzo possibile, dove il fine giustifica sempre i mezzi se il fine ultimo è primeggiare.

Si tratta di una posizione estrema dell’agonismo, che sfrutta l’aggressività con lo scopo di soddisfare il proprio ego o anche di ledere o raggirare chi sta attorno. L’aggressività è un istinto indispensabile per la sopravvivenza della persona, ma quando viene canalizzata verso comportamenti lesivi per i compagni, o gli avversari, sfocia irrimediabilmente nella violenza.

Questo genere di aggressività viene spesso confusa con giusto agonismo, ma anche con scaltrezza, furbizia e malizia, andando così a svilire sentimenti come disponibilità, rispetto, e correttezza, perché considerati solo forme di debolezza a vantaggio degli avversari.

È bene dunque rivalutare il concetto di agonismo in una direzione più sana ed etica, che si fonda sul divertimento e sulla voglia di fare, sulla lucidità e sulla concentrazione, abilità fondamentali nello sport come nella vita. La difficoltà sta proprio nel trasferire gli strumenti per gestire la propria parte istintuale senza sfogarla, per prendere così le decisioni migliori e perseguire il proprio impegno con grinta e coraggio.

Senza di esse verrebbe a mancare una parte formativa di grande spessore umano, dal quale derivano valori importanti come la dedizione e il sacrificio. Tutto questo a discapito dell’atleta che rimarrà bloccato nella sua crescita, come sportivo e come persona.

Vivere un sano agonismo può essere una grande occasione di apprendimento. Alla base non deve mancare l’educazione all’espressione sana delle emozioni, aiutando a canalizzare gli istinti in una direzione strategica ma funzionale alla crescita. L’aggressività diventa così una spinta a vincere, a valorizzarsi e ad imporsi sugli altri ma senza un sentimento violento o ostile e di prevaricazione.


COMPETITIVITÀ

A partire dal XVIII secolo competens, il participio presente del verbo latino competere, viene utilizzato per indicare una sufficienza di qualificazione. Competere, da cui ha origine anche la parola competizione, è un composto di cum (con, insieme a) e petere (aspirare a, rivolgersi, dirigersi verso).

Lo sport, per sua natura, porta con sé il concetto di competizione, una competizione che spinge a mettersi in gioco, ma che a volte può far affiorare comportamenti antisportivi.

Sono proprio queste situazioni tecnicamente non irregolari, ma considerate scorrette che possono innescare comportamenti antisportivi pur di raggiungere la vittoria.

Gli inglesi direbbero gamesmanship per descrivere questi atteggiamenti discutibili e al limite della regolarità, in netta contrapposizione con sportsmanship, la caratteristica etica che fa di un atleta uno sportivo.

Nello sport, infatti, non esistono solo regolamenti e punizioni, ma anche codici non scritti che devono essere rispettati per lealtà verso l’altro.


INTERVISTA AD YLENIA BARONE

Psichiatra del team della Psichiatria del Policlinico di Milano (08/06/2022)

Fonte: www.policlinico.mi.it

Perché siamo competitivi?

La competizione è propria dello sport, ma anche di altre attività. Essere competitivi ci permette di essere attivi, è uno stimolo che ci porta a fare le cose con grinta e determinazione.

Essere competitivi, quindi, è una cosa positiva?

Sì, se pensiamo alla competizione sana, cioè quel volersi migliorare e mettere alla prova per raggiungere i propri obiettivi, e lo sport gioca un ruolo importante in tutte le età. A partire dai 6 anni i bambini, infatti, iniziano a capire l’importanza delle regole, ma anche del rispetto degli altri, e il gioco e lo sport vengono vissuti serenamente, con divertimento, proprio come dovrebbe essere.

Quando la competizione diventa quindi negativa?

In tutti i casi in cui, in maniera ripetuta e sistematica, ogni volta che si scende in ambiente di gara, anche durante i normali allenamenti, il non saper perdere, il subire un fallo o la troppa voglia di vincere portano ad atteggiamenti aggressivi e scorretti.

Quali sono tipici comportamenti antisportivi e come impattano sull’avversario?

Anche nello sport esiste una etichetta cioè quell’insieme di norme e comportamenti cavallereschi, non scritti nei regolamenti, ma che sono alla base del rispetto altrui. Non dobbiamo pensare solo a scorrettezze fisiche come spinte o eccesso di falli, ma a comportamenti che vanno ad agire sulla resistenza psicologica di chi li subisce. Questo può destabilizzare l’avversario oppure innescare una risposta a cascata di comportamenti antisportivi. Due atteggiamenti tipici sono il cercare di deconcentrare l’avversario e il mancargli di rispetto.

Ma cosa si intende per aggressività nello sport?

Più che di aggressività, bisogna parlare di comportamento aggressivo. L’aggressività, infatti, è un tratto distintivo di tutte le specie, alla base dei meccanismi di difesa-attacco fondamentali per la sopravvivenza. E nello sport è quella grinta che spinge a raggiungere un obiettivo, ma nel rispetto delle regole e dell’altro, e durante la crescita aiuta i bambini ad imparare a gestire le proprie emozioni e sentimenti. Si parla invece di comportamento aggressivo quando nel corso di una partita si nuoce all’avversario, in maniera fisica o verbale, spinti dal desiderio della vittoria e se questo non avviene si sfoga la propria rabbia verso i giocatori dell’altra squadra, l’avversario, l’arbitro e questo atteggiamento è sistematico, cioè avviene tutte le volte che si scende in campo.

Ma dipende dallo sport praticato?

No. È solo una convinzione che gli sport di combattimento portino ad essere aggressivi. Anzi, se pensiamo alle discipline orientali come il Karate o il Judo, oppure ad altre più da contatto come la Boxe o la Lotta Libera, viene proprio insegnato il rispetto dell’avversario. Affinché la competizione nello sport rimanga sana, indipendentemente dall’attività praticata, è fondamentale il ruolo dei genitori e dell’allenatore: il benessere fisico e mentale, infatti, potrebbe venire meno se il bambino o l’adolescente osservano nel genitore e nell’allenatore un atteggiamento di esaltazione eccessiva in cui il pensiero fisso è la sola vittoria ottenuta magari non sempre in maniera leale.

L’importante è partecipare non è solo una frase fatta?

Esatto. Genitori ed allenatore dovrebbero insegnare a perdere. Questo non vuol dire fare sport partendo già con l’idea di non vincere, ma di valorizzare il gioco di squadra e l’impegno di ognuno. Si vince e si perde insieme, anche negli sport individuali la vittoria o la sconfitta deve sempre essere condivisa e mai fatta ricadere sul singolo. Mettersi in gioco, nello sport o in qualsiasi attività, deve servire per crescere, progredire e migliorarsi, non per essere umiliati, mortificati e fatti sentire in colpa. Frasi come: Potevi prendere 10 oppure: Se ti fossi impegnato di più avresti segnato; Non hai fatto abbastanza… potrebbero innescare atteggiamenti aggressivi e non corretti per raggiungere il risultato.


Prima di analizzare le tematiche sottostanti al concetto di competitività (o agonismo), che sono le tematiche ricorrenti e più dibattute all'interno del forum EG e dunque della community di RisiKo!, si ritiene utile illustrarne graficamente i legami esistenti.

Come si può osservare dall'immagine, si è pensato di distribuire le tematiche su tre archi temporali, rispettivamente legate al:

  1. Breve periodo: nell'ambito di una singola partita
  2. Medio periodo: nell'ambito di un torneo mensile
  3. Lungo periodo: nell'ambito della ranking annuale

Inoltre, risulta evidente che tre di queste tematiche (componente relazionale, punti ranking ed eliminazione di un giocatore) siano trasversali rispetto agli archi temporali di riferimento: ossia abbracciano il periodo di riferimento andando dal breve al medio e al lungo periodo, indistintamente e per ovvi motivi, come verrà illustrato nei rispettivi paragrafi.



NOTA: quanto illustrato nei successivi paragrafi, rappresenta una rielaborazione di concetti esposti sul forum EG in discussioni relative alla sportività.
Per chi volesse approfondire tali concetti può consultare le seguenti pagine:

8.10.1 Tornei Ufficiali

Talvolta (e periodicamente) alcuni giocatori accreditati ipotizzano che altri giocatori si scambino favori all’interno delle competizioni mensili online.

Nessuno nega che, se esistano eventuali meccanismi di tale natura, essi siano utili e facciano vincere, ma sono sicuramente antisportivi: infatti, quando si trasferisce il do ut des (do a te perché tu dia a me) da una partita ad un’altra, non si concede agli altri giocatori della partita successiva pari opportunità in quanto alcuni giocatori hanno già un accordo, anche se non dichiarato. Questo accordo non scritto e non detto nasce da eventi legati a partite (o tornei) precedenti a cui i restanti giocatori della partita sono estranei, pertanto è palesemente antisportivo.

Ovviamente questo modo malsano di giocare porta ad un gruppo più o meno ampio, non ufficialmente definito di solito, e la vittoria finale va ad uno dei suoi membri.

Il RisiKo! si presta a questo tipo di meccanismi o routine ed il Regolamento dei Tornei Ufficiali online (Challenge e Prestichallenge) non solo lo consente ma lo incentiva anche, perché ognuno si può scegliere gli avversari e farsi il proprio torneo su misura, giocando le partite con determinati giocatori o contro altri giocatori oppure a favore di un giocatore.

La conseguenza è che ad un gruppo si oppongono uno o più gruppi, perché non è possibile vincere sportivamente a RisiKo! (in particolare nei tornei ufficiali) contro uno o più gruppi che non giocano sportivamente. Ed il solo fatto che esista un gruppo di gioco è antisportivo in quella che è, per definizione, una competizione individuale.

Non c’è nulla di gratificante a vincere un torneo mensile come membro parte di un gruppo, perché la vittoria non sarebbe stata conseguita sportivamente, quindi tutto si ridurrebbe ad aver dominato, non ad aver vinto una competizione sportiva, perché sportiva non lo era più.

Questo problema insito nel RisiKo! online è praticamente impossibile da risolvere. Ciò anche a causa del cosiddetto meccanismo degli scalpi (che prevede di scegliere i giocatori con cui giocare, tra quelli che hanno più punti in classifica) previsto nel regolamento della competizione dei tornei ufficiali e che assegna tanti punti vittoria quanti più punti sono in palio (da parte di ogni singolo giocatore) in quella determinata partita.

La perfezione sportiva in partita (breve periodo) e nel medio / lungo periodo è quasi impossibile da raggiungere, però bisognerebbe cercare di tenderci. E questa cosa si ottiene da tutti e quattro i giocatori in partita e da tutta la comunità ludica in tutte le partite di un torneo.

Diversamente sarebbe se i tornei fossero disputati con una formula che preveda il sorteggio integrale degli iscritti e con un calendario settimanale da rispettare.

8.10.2 Componente relazionale

Nelle relazioni umane, imprescindibili dal gioco e soprattutto nell’ambito della community e quindi dei tornei, non bisogna però cadere nell’errore di pensare in termini di simpatie o relazioni significative tra i giocatori.

Si rispetta anche l’avversario, se vince in modo onesto. E il modo di giocare che prevede favoritismi di sorta non è onesto. Forse è consentito dal regolamento, poiché l’arbitro non può sanzionare le mosse di un giocatore, ma sicuramente non è sportivo.

Dunque, le relazioni sociali sono bellissime al di fuori di una partita, ma dentro la partita occorre trattare un conoscente allo stesso modo in cui viene tratto uno sconosciuto: in modo imparziale. Questa è la componente sana della competitività.

Non si sta parlando di non sfruttare la conoscenza dell’avversario. La relazione umana va invece sfruttata in una partita. In pratica, occorre far credere al giocatore alleato (ad esempio il compagno di GC) che la vittoria se la giocano loro, poi quando l’alleato andrà in vantaggio di punti, pensa di poter contare sul compagno di GC per non essere attaccato, quindi rinforzerà poco vicino ai territori confinanti col proprio alleato e rinforzerà molto nei territori vicini all’altro avversario candidato per la vittoria.

Se il giocatore dell’alleato gioca in modo competitivo, l’unica cosa giusta che può fare è di attaccare il proprio alleato in quei territori lasciati poco presidiati (soprattutto se sono territori nel suo obiettivo). Questo è il modo corretto di giocare. Nella partita successiva, tale giocatore, memore di questa esperienza, rinforzerà sia i territori confinanti con l'avversario candidato alla vittoria che quelli confinanti con il proprio alleato, come dovrebbe essere.

Dunque, le relazioni devono essere esterne alla partita: non ci devono entrare se non nella misura tecnica del sapere come gioca una persona. Questo è il limite invalicabile per chi voglia essere competitivo.

Chi non è in grado di prescindere, almeno in qualche misura, dalla relazione che ha con un’altra persona quando ci gioca, non giocherà mai veramente e sarà sempre non competitivo. La superiorità normalmente è elevarsi al di sopra, quindi prescindendo dalle relazioni umane, per essere imparziali.

Stare fermi per non attaccare un giocatore che è amico o è simpatico sarà umano, ma non è competitivo. Il punto è che si gioca in una competizione individuale e, se non si compie quell’attacco contro il proprio amico, allora si gioca insieme a lui e in quel momento si sta violando profondamente il gioco, si sta distruggendo la competizione stessa.

La competizione è individuale e la si sta trasformando per far vincere un amico. La vittoria così non è meritata. Non lo è perché si è violato il principio su cui si basa una competizione sportiva individuale.

Va anche detto che la competitività malsana si nutre delle debolezze umane e suggerisce azioni ignobili. L’errore che si paventa di frequente è quello di credere di essere nel giusto con le proprie idee, il proprio comportamento ed il proprio modo di vedere le cose. Quando non si riesce a frenare queste tendenze si arriva a credere che il comportamento diverso dal proprio vada represso, sanzionato, corretto.

D’altra parte, in taluni casi, occorre valutare se alcune scelte di gioco, in un'ottica di relazioni nel medio / lungo periodo siano convenienti o meno, perché di fatto, tali scelte vengono vissute, da chi la subisce, come una sorta di tradimento. In pratica si sta approfittando della tacita fiducia tra i giocatori alleati. Ma, come abbiamo visto nella psicologia bianca, se tale azione può portare alla vittoria, allora è giusto compierla. Ovviamente sta al giocatore in questione valutare cosa ne sarà della sua reputazione a posteriori nella comunità ludica.

RisiKo! è un gioco che ha una fortissima componente psicologica ed è molto frequente che qualcuno giochi contro un altro giocatore per i più disparati motivi.


È CORRETTO PENSARE CHE IL RISIKO! SIA IMMERSO NELLA COMMUNITY?

Umanamente, è imprescindibile non tener conto o non pensare alle dinamiche interne di una community, ma tecnicamente si avrebbe un approccio antisportivo al gioco poiché, seppur inconsciamente, si andrebbe a tener conto delle relazioni che si hanno con i giocatori al di fuori della partita per decidere le mosse di gioco. In realtà non è corretto giocare in questo modo, perché così il gioco è svilito ed è solo una proiezione delle relazioni della community. Il gioco è un’altra cosa. È un modo di relazionarsi basato esclusivamente sul regolamento e sugli scenari della partita.

Chi ama il gioco sa che tutti devono avere pari opportunità, altrimenti non c'è gioco.

Chi ama il gioco sa che se un giocatore può ottenere un punto su di un’avversario, facendolo perdere, lo deve fare perché è nelle sue legittime possibilità. Era l’avversario che doveva cautelarsi da tali attacchi.

Alcuni giocatori, non fanno attacchi e dunque conquiste (salvo eclatanti provocazioni che sfociano nella ripicca personale) solo per loro unico vantaggio o tornaconto personale: viene considerato come un potenziale investimento per il futuro. Infatti, i giocatori sono esseri umani e non robot; i giocatori si rincontrano prima o poi e in questi casi il comportamento etico è spesso premiato; se fosse una partita secca allora vale il ragionamento contrario, ma nell’arco di un torneo o di un anno, non è cosi ed è un fattore da valutare nel medio o lungo periodo.

Dunque, qualsiasi comportamento (stare fermi oppure attaccare chi e come) fatto nel proprio interesse è considerato come una sana competitività (anche se valutarlo è veramente complicato e può essere fatto solo dal diretto interessato) proprio perché non si tratta di una partita secca e, spesso, rinunciare ad un piccolo vantaggio nell’immediato può darne uno maggiore successivamente (sia nell'ambito della partita che nell’arco di un torneo o di un anno).

8.10.3 Punti ranking

In un torneo, il fattore umano non cambia il valore che ha l’azione di acquisire più punti in partita e quindi conquistare quanti più territori in obiettivo possibili o togliere territori in obiettivo degli avversari, ma fuori obiettivo per il giocatore di turno.

Alcuni giocatori se non possono vincere la partita, decidono di stare fermi: ma anche questo è un modo di essere un kingmaker, poiché rinunciando a quel punto in più in classifica, non si attacca il giocatore in vantaggio, facendo perdere un altro giocatore. Dunque, è proprio chi sta fermo, pur potendo tentare di ottenere un punto ranking in più, che falsa la classifica.

Stare fermi sarebbe corretto se fosse premiata solamente la vittoria (ad esempio in una partita secca ad eliminazione diretta oppure una finale): in tal caso, attaccare senza poter vincere, sarebbe antisportivo. Ma i punti ranking, che valgono per il torneo in corso e per la classifica annuale, vengono attribuiti anche a chi non vince. Quindi è corretto, legittimo e competitivo, cercare di guadagnare comunque il maggior numero di punti possibili. Evitare di farlo è invece non competitivo, se fa vincere un giocatore diverso da quello che avrebbe vinto se il tentativo ci fosse stato. La competitività è giocare per fare il meglio possibile.

In definitiva, ogni giocatore deve cercare di fare il massimo per se stesso. questo è l’unico modo competitivo di giocare, il risultato che ne viene fuori sarà così il risultato giusto.

Non è competitivo penalizzare un avversario senza avere la valida ragione che si sta tentando di ottenere il miglior risultato raggiungibile, ma è altrettanto non competitivo aiutare un avversario quando questo costa anche un solo punto ranking.

Ogni giocatore deve pensare a sé, invece quando pensa a qualcun altro non è competitivo. Non si dovrebbe mai pensare che ad un certo punto della partita si decida chi deve vincere e si pretenda addirittura di dire che questa azione, palesemente non competitiva, è invece competitiva.

Il risultato è quello che si ottiene quando tutti giocano al massimo delle proprie possibilità. Ogni volta che c'è un’azione che agevola qualcuno, penalizzando se stessi oppure che penalizza qualcuno non agevolando se stessi si tratta di un’azione non competitiva. È competitivo decidere involontariamente chi deve vincere, se un giocatore segue il proprio obiettivo di fare più punti possibili. È invece non competitivo che un giocatore, volontariamente e consciamente, non cerchi di guadagnare punti perché questa sua azione farebbe vincere un altro.

8.10.4 Eliminazione di un giocatore

C'è chi sostiene che RisiKo! sia un gioco cattivo. Lo scopo di RisiKo! è sopraffare gli avversari. Almeno questa era l’idea originale dell’autore. L’introduzione degli obiettivi ha limitato quest’aspetto. Tuttavia, chiaramente, la vittoria continua a passare attraverso l’annientamento dell’avversario.

Mentre molti giochi hanno limitato la contrapposizione tra i giocatori, RisiKo! ne fa il suo cardine.

Si tratta di un’interazione distruttiva, atta proprio a ledere l’avversario. Caso particolare, quando alcuni giocatori si coalizzano contro qualcuno per eliminarlo. Capita spesso che qualche giocatore se la prenda (forse in un modo infantile), e porti rancore al di fuori del tavolo da gioco.


Se è possibile eliminare un avversario e si reputa che farlo non faccia ottenere meno punti del non farlo, allora si deve farlo. Questo è inerente la competitività.

Il motivo per cui si deve farlo è semplice: perché per quanto improbabile, quell’avversario potrebbe togliere un posto nella classifica di un torneo ufficiale senza il malus di -20 punti ottenuto eliminandolo. Questa eliminazione, in queste circostanze, produce anche il valido effetto che probabilmente uno o più giocatori miglioreranno la loro posizione in classifica rispetto all’eliminato. Questo è l'effetto competitivo, ovvero quello che dovrebbe essere. Se non viene eliminato, probabilmente uno o più giocatori non guadagnerebbero la posizione che gli sarebbe dovuta se si fosse giocato in modo competitivo.

Non vale il pensiero che si potrebbe avere un tornaconto nelle partite successive, perché è una restituzione di favore che produce un vantaggio antisportivo nei confronti degli altri giocatori. Se poi il giocatore eliminato gioca contro nelle partite successive, è lui antisportivo.

È anche vero però che i giocatori non vivono in un mondo ludicamente perfetto: giocano delle persone, non dei robot, delle persone con le loro emozioni e la loro psicologia.

Se, dal punto di vista del vantaggio personale (in un ottica di medio o lungo periodo) e quindi in modo sportivo non c’è alcuna convenienza ad eliminare un giocatore, allora si può anche decidere di non farlo, perché lo si reputa svantaggioso per se stessi. Questo a prescindere dal fatto che ci si aspetta dei favori in futuro dal giocatore non eliminato. Ma è ovvio sottolineare che ci sono azioni e reazioni. E le reazioni dei giocatori vanno valutate, sia nel breve periodo (all’interno di una partita) che nel medio e lungo periodo (all’interno di un torneo mensile o di un anno).

8.10.5 Cooperazione e kingmaker

Nella sezione riservata ai giocatori accreditati di RD3 è riportata la seguente regola del punto 5. NORME DI COMPORTAMENTO, RECLAMI E SANZIONI

5.3 Qualsiasi accordo preventivo è severamente vietato, ma non sono escluse mosse che possano comportare momentanee alleanze fra giocatori, nel corso di una singola partita, purché sempre nel rispetto delle regole e dello spirito del gioco stesso e purché queste alleanze non avvengano in modo esplicito, con accordi verbali. È facoltà dell'Arbitro Designato valutare se vi siano state violazioni al regolamento e allo spirito del gioco.

Le alleanze in partita (non prestabilite a priori tra due o più giocatori) sono legittime, ma il fine dell’alleanza (cooperazione) non è far vincere un giocatore già designato e nemmeno dare la vittoria all’alleato quando non si può più ottenerla. Il fine dell’alleanza è in primo luogo vincere per se stessi e, ove questo non sia possibile, è quello di fare il maggior numero di punti possibile (anche se vengono tolti all’alleato di turno).

Sono questi gli ideali della competitività: vince chi compie la migliore prestazione tra avversari che danno tutti il meglio. Quando un avversario non dà il meglio e si comporta da kingmaker (ad esempio non conquista un territorio perché lo toglierebbe a colui che per qualche assurdo motivo dovrebbe vincere, e i motivi sono tutti assurdi perché è la plancia che deve decretare la vittoria, non il giocatore) è antisportivo e rovina la competizione.

Il kingmaker provoca la vittoria del giocatore sbagliato. Questo è il contrario della competitività. Non attaccare qualcuno quando invece si dovrebbe perché si avrebbe un vantaggio potrebbe essere lecito.

Si può affermare che, potendo trovare una scusa per non attaccare un giocatore (e la scusa non può certo essere quella di pensare che non spetta al giocatore di turno decidere chi debba vincere, è lo scontro in plancia che lo deve fare, ovvero la competizione sportiva), tale comportamento non sia sanzionabile.

Ma sicuramente è antisportivo, perché invece di far emergere dalla plancia il risultato competitivo della partita, ci si infligge la punizione del kingmaker: decidere di far vincere un giocatore piuttosto che un altro. Questa è una perfetta definizione di antisportività.

In una competizione sportiva non esiste il concetto che un giocatore si debba sacrificare per far vincere un altro giocatore. Ognuno deve giocare per sé, senza dare aiuto e senza riceverlo. Gli aiuti che un giocatore decide di compiere (cooperazione), devono avere come unica finalità il proprio tornaconto, non quello di un altro giocatore, che rimane sempre un avversario in plancia.

Dunque, conquistare o meno un territorio, è a spese di qualcun altro in entrambi i casi. Se si prendono i propri punti è a spese del giocatore a cui vengono presi, se non si prendono è a spese dell’altro giocatore. Siccome ci si è iscritti ad una competizione individuale, se si è competitivi si deve attaccare per prendere i propri punti. È questa l’unica scelta competitiva.

Però, come abbiamo visto nel capitolo precedente, da un punto di vista esclusivamente psicologico, i giocatori in partita devono tenere conto del comportamento da kingmaker: devono stare attenti a come giocano in plancia, alle azioni che fanno, alla storia della partita al fine di evitare o perlomeno contenere un’azione kingmaker a danno di se stessi.


Nella sezione riservata ai giocatori accreditati di RD3 è riportata la seguente regola del punto 5. NORME DI COMPORTAMENTO, RECLAMI E SANZIONI

5.1 Al di sopra di ogni altra norma di comportamento, esiste il rispetto per gli avversari e per il loro modo di giocare

Che sostituisce la precedente regola (risalente alla pubblicazione di RD2 nel 2009):

11.1 Al di sopra di ogni altra norma di comportamento, esiste il rispetto per gli avversari, ricordando che il raggiungimento del massimo punteggio possibile ai fini del raggiungimento della vittoria finale è l'obiettivo di ciascun giocatore

Dunque, sulla base di questa precedente regola, è lecito chiedersi:

Vengono applicate sanzioni ad un giocatore che non gioca per il raggiungimento del massimo punteggio possibile, ma al contrario gioca per danneggiare un giocatore a favore di un altro?

In pratica ci si sta chiedendo se un giocatore che si comporta da kingmaker possa essere considerato un giocatore che adotta un comportamento antisportivo.

La risposta a questa domanda ci viene data direttamente dall'autore del regolamento Spartaco Albertarelli (spartac), ex Arbitro Ufficiale EG in data 11 marzo 2024:

Con tutta probabilità perché RisiKo! è un gioco fortemente influenzato dal problema del kingmaking e il concetto di raggiungimento del massimo punteggio possibile si presta a una serie di interpretazioni che i giocatori più maliziosi (e polemici) potevano utilizzare per contestare l'operato arbitrale. Bisogna considerare che l'obiettivo non è mai quello di scrivere il regolamento perfetto, ma quello di scrivere una serie di norme che consentano di arbitrare nel modo più efficace possibile quel tipo specifico di competizione. I giocatori di RisiKo! sono portatori di alcune peculiarità, quindi le regole devono per forza adeguarsi. La seconda regola riduce il numero di possibili reclami pretestuosi e quindi facilita il compito dell'arbitro.

8.10.6 Vittoria della partita

Anche vincere non è il valore superiore, essere sportivi lo è.

Si è liberi di non attaccare anche se conviene per far vincere colui che è in vantaggio in quel momento, ma si sta ledendo la libertà dell’altro candidato alla vittoria di giocare una competizione sportiva individuale.

Quindi non lo si può fare, se si tiene alla scelta libera giusta, ovvero a rispettare i diritti di quel giocatore. Perché è quel giocatore che ha il diritto di vincere, non quello che si sta aiutando in modo non competitivo (perché si sta andando contro i propri interessi, quando invece si ha implicitamente accettato di seguirli iscrivendosi ad una competizione individuale).

Nella competizione è un obbligo essere sportivi e competitivi, ovvero giocare al meglio per la vittoria o per i punti in ogni singola partita. Se si gioca al meglio per vincere o massimizzare il proprio punteggio in ogni singola partita allora si è competitivi. La non competitività si manifesta quando non si fa il meglio per la vittoria o per i punti nella singola partita, ovvero in entrambi i seguenti casi:

  1. non si fa il massimo perché si ritiene erroneamente che debba vincere chi è in vantaggio in quel momento. Non è competitivo. Invece, deve vincere colui che verrà decretato dalla plancia non dal giocatore kingmaker; al singolo giocatore spetta fare il meglio per se stesso
  2. non si fa il massimo perché si ritiene vantaggioso per se stessi nell’ambito del torneo, ovvero ci si aspetta qualche favore in altre partite. È antisportivo. Si deve fare il meglio innanzitutto nella partita in corso, altrimenti si gioca in modo non competitivo ed antisportivo, perché si acquisisce un vantaggio da spendere in un'altra partita violando il diritto di ciascun giocatore di avere pari opportunità nell’altra partita (che deve essere senza storia per tutti, non soltanto per qualcuno e per altri invece con dei favori da rendere)

L’errore è proprio nel pensare che qualcuno abbia già vinto di diritto. Per tutta la partita si è cercato di prevalere, perché mai questo non dovrebbe valere all’avvicinarsi della fine partita?

Finché la partita è in corso, non c'è alcun giocatore che abbia acquisito il diritto di vincere senza lottare per questo anche negli ultimi turni.

Se poi invece si ritiene che un giocatore, anche giocando bene, non dovrebbe fare punti alla fine a scapito di chi in quel momento è in vantaggio, allora ci si sbaglia clamorosamente. Allora, perché non si decide all’inizio della partita chi deve vincere? È assurdo pensare che ad un certo punto della partita si debba smettere di giocare.

8.11 Appendice sulla sportività

Insieme ad altre parole del passato, anche la parola sportività ha smarrito il suo significato a causa del cattivo uso che se ne fa. Un aggettivo che, invece, nei suoi primi anni di vita è stato al centro di una vicenda che voleva essere una rivoluzione del modo di vivere. I promotori delle pratiche atletiche con sportività intendevano definire le qualità morali dell’atleta che vedeva nello sport la lotta (agonismo o competitività) e per conseguenza una preparazione voluta e ragionata. [38]

L’atleta come uomo ideale, infatti, doveva essere sì spinto dal desiderio ardente della vittoria e dal godimento morale che ne deriva (Pierre de Coubertin, da La preface des Jeoux Olympiques, 1896), ma doveva anche possedere altre prerogative:

  • il disinteressamento nell’ambizione
  • la lealtà nei mezzi
  • l’energia perseverante e disciplinata nella preparazione
  • l’audacia nella lotta
  • la modestia nella vittoria
  • la serenità nella sconfitta
(Pierre de Coubertin, Conference du Secretaire General à L’Assemblèe gènerale de l’Union, 1893).

Un grande allenatore di nuoto d’inizio del secolo scorso, Louis de Breda Handley, tra l’altro giornalista e scrittore curatore della sezione dedicata al nuoto dell’Enciclopedia Britannica, era così sicuro di queste idee che in un articolo dell’WSA News, rivista della squadra che lui stesso curava, pubblicò i dieci comandamenti non scritti dello sport (redatti ad inizio secolo con minor successo dall’editore sportivo Hugh Fullerton), che spiegavano cosa fosse quella sportività che considerava come la vera vittoria. Essi sono:

  1. non abbandonare la prova (*1)
  2. non cercare alibi (*2)
  3. non gongolarsi sulla vittoria (*3)
  4. non sentirsi mai perdente (*4)
  5. non cercare vantaggi illeciti (*5)
  6. non chiedere pronostici e non essere propenso a darne (*6)
  7. essere sempre attento a non mettere in ombra il proprio avversario (*7)
  8. non sottostimare l’avversario né sovrastimare se stessi (*8)
  9. ricordare che la competizione è un gioco e chi pensa altrimenti è uno stupido e non uno sportivo (*9)
  10. onorare la competizione fatta, chi si è battuto lealmente e con tutte le forze vince anche quando perde (*10)

Di seguito, un approfondimento (utile anche per il RisiKo!) dei dieci comandamenti:

Fonte: www.nuoto.com

(*1): Si tratta di una posizione esistenziale, mentale ma anche morale, non solo di una condotta comportamentale. La prova, qualunque essa sia è un elemento della vita ineludibile. I padri del deserto dicevano questa massima: leva la tentazione dalla vita e avrai la condanna. La prova è la condizione della vita, il momento della chiarificazione, della scoperta di noi stessi e di quello che vale la pena o meno raggiungere.
(*2): La tentazione di trovare una causa esterna che giustifica quello che non faccio è tipico dello sportivo. Quello che funziona è fare quello che si può nella condizione in cui si è. Solo quello che spetta a me è utile a raggiungere un obiettivo. Tutto il resto è puro disturbo. Ci si accorge allora che quello che si può è moltissimo.
(*3): Il vero comandamento sta nel troppo, nell’esaltazione senza freno, nella superbia, nell’idea malsana di essere superiori all’altro. È un’idea che rimbalza prima o poi contro di noi non appena si ribalta la situazione e ci troviamo depressi, umiliati e schiacciati dall’idea di essere inferiori e falliti. Altra cosa è la gioia, la soddisfazione e l’appagamento per un desiderio compiuto che si realizza, compreso il battere l’altro in quella prova, espresso dalla gioia di vivere.
(*4): Il mondo non è diviso in vincenti e perdenti. Nella vita si perde e si vince. Probabilmente si perde più facilmente di quanto si vinca, ma se è così è un presupposto che dobbiamo accettare. A volte si vince senza aver fatto un granché, spesso si perde avendo fatto tutto quello che era in nostro potere. Il valore sta nella perseveranza. L’uomo atleta che sa, non è determinato dalle sconfitte ma dalla volontà di continuare a perseguire il fine che lo anima, la soddisfazione che lo attende, l’esaurimento momentaneo delle forze che intimamente lo appaga.
(*5): Non si tratta solo di barare. Si tratta di una questione più centrale: che dobbiamo sì fare tutto quello che possiamo per essere meglio degli altri, ma non a tutti i costi. Ci sono costi che non si possono pagare senza perdere tutto. Il primo costo da non pagare è la negazione dell’altro, che è la fonte del mio beneficio; è dall’altro che verrà la mia soddisfazione, dalla sua bravura, dalla sua stima, dalla sua affezione o per lo meno dalla sua presenza. Pertanto non scavalcherò la sua realtà ingannandolo (anche quando lui mi inganna) o distruggendolo (anche se lui vuole distruggermi). Le regole che lo sport si dà hanno questo senso, che dico prima dove intendo arrivare e dove non andrò e lì mi fermo. Chi infrange questo patto infrange tutto.
(*6): È correzione del voler determinare prima un risultato anziché prepararsi per l’azione, col risultato dell’arroganza nel momento della dichiarazione e della inibizione con angoscia quando la previsione non si realizza. La virtù dell’atleta è sempre il confronto con la realtà e quindi il realismo. In questa posizione rimangono sempre possibilità di agire.
(*7): È un pensiero, tenere in onore l’avversario, che viene dalla cavalleria. L’uomo che può togliere la vita deve essere considerato con tutto il rispetto che merita il condividere lo stesso rischio. È riconoscimento di parità, ma anche testimonianza di tutto l’impegno, il lavoro, la fatica, la tensione, l’intelligenza, il coraggio e l’energia che saranno necessari per vincere l’incontro.
(*8): Si tratta di un richiamo all’umiltà, la virtù principe dell’atleta amateur. L’umiltà non consiste nel mettersi in basso per farsi omaggiare, ma nel sapere esattamente quanto la nostra fragilità sia causa di disastri. Da dove viene allora la nostra capacità di vincere? Da quello che abbiamo ricevuto, quindi non è nostro e non ne disponiamo per sempre. Per questo è realista essere umili. Nostro è il lavoro necessario per avere a disposizione tutto ciò che abbiamo preso nel momento della prova e il lavoro per usarlo con precisione, decisione, forza d’animo nel raggiungere lo scopo.
(*9): Prima questione: il gioco, però, soprattutto nei bambini, è una cosa serissima. Niente a che vedere con una cosa fatta pressappoco, magari ridacchiando. Questo è il gioco malato degli adulti. Seconda questione: il comandamento ricorda invece la leggerezza che il vero sportivo deve avere, la capacità di chiudere quando finisce l’incontro (il saluto nella pallanuoto ha questo senso, come il terzo tempo nel rugby), la capacità di prendersi anche un po’ in giro e di vedere il lato comico presente in ogni questione umana.
(*10): L’ultimo comandamento dello sport li richiama tutti. La questione finale è quindi cosa sia la vittoria. È l’ordine di arrivo? Il riconoscimento di un piazzamento rispetto ad un altro? La constatazione di un punteggio? La vittoria come riscontro di un dato è un evento che può accadere come no. Onorare la competizione non è nel cogliere questa vittoria, che può anche essere fortuna senza merito, superiorità senza competizione o ingiustizia, ma cercarla con tutte le forze (lo diceva anche il poeta Orazio). In un evento ci sono tante vittorie. La più grande vittoria è la riuscita nell’intento di onorare, amare e stare nella competizione senza perdere se stessi e ciò che ci fa uomini ammirabili. È saperci stare lealmente, nel rispetto della verità (la situazione, come sono andate le cose, cosa ho fatto, cosa ha fatto l’altro) e senza superare i limiti accettati (usare le abilità, l’esperienza, il coraggio, l’intelligenza e non la scaltrezza, la menzogna, l’inganno e l’offesa).

Quest’attenzione, quasi religiosa anche nella forma, pretendeva dall’atleta una sottomissione alla verità dei fatti e il riscatto dalle tentazioni di una realtà disposta a tutto per l’affermazione.

Contemporaneamente sanciva il primato dell’interiorità sull’esteriorità, fondando la riuscita sportiva sull’atto virtuoso: l’unico gesto umano degno di vera ammirazione.

Ma i buoni propositi non sono mai sufficienti a far cambiare. Per imparare qualcosa occorrono uomini e donne in carne ed ossa da guardare ed ammirare e in cui riconoscere che è più bello essere fatti in un certo modo piuttosto che in un altro.

Oggi i regolamenti non rendono più possibile gesti epici ed eroici di fronte alle ingiustizie di qualsiasi genere nell’ambito dello sport: l’atleta è ancor più costretto in una logica che supera le decisioni del singolo. Oltre a questo, sembra diventato ancora più pressante l’imperativo categorico dell’affermazione di sé perché dà l’impressione di far ottenere il modo per lasciare una traccia della propria esistenza: di conseguenza il costo del risultato è diventato spesso a qualsiasi costo.

Per questo è importante rilanciare il messaggio della sportività, anticorpo ad una mentalità deprimente e distruttiva, come distintivo dell’atleta agonista e orientamento di chi vuole che lo sport sia lo strumento di formazione individuale che è capace di essere.

Prosegui con il capitolo 9. PARTITA A TRE GIOCATORI